Rientrato da un Campo internazionale di volontariato in India, Daniele riflette sugli insegnamenti tratti dall’esperienza, tra lavoro nelle scuole e incontri con la popolazione locale: «La solidarietà ci rende persone più libere, perché consegna l’ostinazione a non demordere dinanzi alle brutture del mondo».
Partire, lasciarsi tutto alle spalle ed incamminarsi in un viaggio di cui non si conoscono i dettagli o la tabella di marcia, ma sapere solo ciò che andrai a fare e con chi, magari anche per quanto tempo (o magari no). È ciò che ha fatto Daniele, stravolgendo la sua vita e partendo per un Campo Internazionale di Volontariato in India nell’estate del 2018. Se deciderai di partire per un campo di volontariato internazionale, che sia in India, in Francia o in Islanda, ciò che devi assolutamente sapere è che sarà un’esperienza che lascia il segno: che sia di due settimane, di due mesi o di un anno. Se hai in progetto di partire, leggi tutte le opportunità in corso di Volontariato Individuale a lungo termine con il Corpo Europeo di Solidarietà.
“A oltre un mese dal ritorno dal campo di volontariato, tutti i giorni, più volte al giorno, ho ancora l’India in testa. O meglio sarebbe dire che la mia testa è felicemente “occupata” dalle persone che ho incontrato là, intorno ai villaggi di Bandh e Patta nelle prime alture himalayane dello Stato nordico dell’Himachal Pradesh; è occupata dalle immagini di meraviglia cristallizzate come fotografie nella mente, e dai bambini con i quali ho lavorato nelle scuole, dai profondi disagi riscontrati e percepiti, dalle opportunità colte o dormienti, dagli insegnamenti tratti da un’esperienza che mi accompagnerà per il resto del mio cammino.
Per questo ho ribattezzato dentro di me “Educate a child” (il nome del campo al quale ho partecipato tra luglio e agosto grazie a Lunaria e all’associazione indiana Ruchi) in “Educate a child to educate yourself”: educa un bambino per educare te stesso.
È per questo credo che il volontariato sia un’attività fondamentale per lo sviluppo di una personalità autentica, solidale, meno individualista rispetto a quanto tenda a formare la nostra società occidentale: il volontariato aiuta a comprendere che noi esseri umani siamo relazione, siamo programmati dalla natura per stare insieme, collaborare, offrirci conforto. Dunque aiuta a capire che la cooperazione – più che la competizione – è un principio basilare dell’evoluzione della specie, e non solo umana, come sempre più dimostrano gli studi scientifici. Lo stesso Darwin ne ebbe intuizione.
Il volontariato spinge insomma a comprendere che quando si aiuta, si viene allo stesso tempo aiutati, spesso (o sempre?) molto di più di quanto noi siamo capaci di offrire: la solidarietà ci rende persone più libere, perché ci consegna l’ostinazione a non demordere dinanzi alle brutture del mondo e alla solitudine interiore che ci capita di provare nella nostra frenetica quotidianità o nelle difficoltà della vita.
Credetemi, le mie non sono parole retoriche: provengono da lontano, da vent’anni fa con le prime esperienze di solidarietà che ho vissuto grazie al gruppo Scout “Voghera 1”, determinanti per la mia formazione, e passano – tra l’altro – da un Servizio Volontario Europeo in Macedonia per arrivare ad oggi, a questo Campo di volontariato che doveva concludersi in due settimane e che invece, una volta là tra i villaggi indiani delle prime alture himalayane, ho deciso di prolungare a tre, mangiandomi senza esitazione i programmi da turista che avevo ipotizzato prima di partire. Ne sono convinto: nelle mie esperienze di volontariato, sono stato aiutato più di quanto io abbia aiutato gli altri, semmai l’abbia fatto. Ad esempio lo Sve in Macedonia mi offrì l’occasione di trovare più facilmente lavoro una volta rientrato in Italia, mentre il campo in India – grazie alle attività con i bambini nelle scuole – ha posto il timbro su un desiderio che andavo maturando da mesi: diventare maestro elementare, e di conseguenza tentare di intraprendere un nuovo corso di laurea per ottenere l’abilitazione all’insegnamento. A 33 anni, già laureato e di già con un cambio professionale importante (da giornalista a educatore), non mi pare un aiuto da poco. Il coraggio, credo, non ce lo si dà da soli: lo si costruisce nelle relazioni con le altre persone. Lo si scalpella insieme.
E così non posso che essere grato a chi mi ha permesso di vivere questa esperienza: Lunaria e Ruchi, gli altri volontari, gli insegnanti indiani con i quali ho collaborato, i bambini riconoscenti di risa e abbracci e che ho visto arrampicarsi per sentieri di montagna per rientrare a casa dopo scuola, gli abitanti dei villaggi che mi hanno offerto pasti, thè, inviti a tornare, e soprattutto sorrisi, sorrisi e sorrisi, sia rivolti a me sia scambiati tra di loro.
È questo il più grande insegnamento che la gente dell’Himachal Pradesh mi ha infilato nello zaino: le difficoltà vanno affrontate con leggerezza. Ciò non significa superficialità, ma una predisposizione d’animo utile a superare gli ostacoli, o almeno ad attraversarli senza un sentimento d’oppressione eccessivo. La vita è difficile e contro questo dato di natura non possiamo farci nulla (tralasciamo il fatto che noi esseri umani la complichiamo ancora di più, enormemente): possiamo tuttavia attrezzare la nostra attitudine alla vita.
E allora se il monsone abbatte litrate d’acqua a terra, è inutile arrabbiarsi: ho visto bambine salire sul bus fradice, di pioggia e di gioia, accolte dai viaggiatori adulti con altrettanta allegria, non con la preoccupazione per un eventuale raffreddore. Ho visto nei campi contadine con il volto semi-coperto da pesanti fasci d’erba portati sulla testa: l’aprirsi luminoso dei loro sorrisi ha donato albe al mio spirito. Ho visto cantonieri spaccare a picconate pietre franate di frequente sulla strada: cantavano e ridevano. Ho visto famiglie unite in una vita dura e semplice, senza viaggi e lavatrici: gli urbanizzati la chiamerebbero una vita povera, ma in quegli occhi ho scorto più serenità di quella mostrata dai nostri sguardi.
Da quando sono rientrato in Italia, se rischio di perdere la pazienza per qualche impiccio mi fermo a pensare: «Ma la gente dell’Himachal Pradesh si arrabbierebbe? No. E allora non mi devo arrabbiare neanch’io». Vorrei imparare a guardare la vita con gli occhi dell’Himachal. Sono grato a chi mi ha permesso di vivere questa esperienza rigenerante, feconda di sviluppi. Con due associazioni della mia città, Insieme e Orti Sociali di Voghera, stiamo progettando una collaborazione dopo avere già raccolto fondi prima della mia partenza a luglio, che ho utilizzato durante il progetto “Educate a child”.
Nelle passeggiate tra i campi coltivati, fra il profumo di coriandolo e il fragorìo dei canalini d’acqua, ho trovato nei rami di una pianta un pezzetto di stoffa a quadretti bianchi e rossi: lo strappo di un’uniforme scolastica di bambina (la divisa dei maschi invece è blu). Ho preso la stoffa e in Italia ne ho fatto un (buffo) braccialetto, per segnare la speranza di tornare tra quelle montagne, tra quei bambini che nelle scuole pubbliche non hanno banchi, né pastelli per disegnare le fantasie riposte nelle menti dei piccoli; o tra quei bambini della città industriale di Baddi che – poiché sono figli di lavoratori immigrati da altri Stati indiani – vivono in sostanza senza diritti in baraccopoli (a Baddi sono circa 16 mila le persone abitanti negli slum), e meno male che quei bambini possono frequentare alcuni centri scolastici a loro dedicati, dove sono stato con Ruchi dopo avventurosi viaggi in bus a scendere dai monti.
Da un seme nasce una pianta, da una pianta altri semi. E il volontariato è un seme che non muore mai: partorisce di continuo nuova vita. Per questo spero che sempre più giovani (e intendo veri giovani, mica trentenni come me!) partecipino a esperienze simili, che siano campi internazionali, Servizio civile, Sve oppure attività solidali intraprese sotto casa: il volontariato fa bene innanzitutto a se stessi, e così si può imparare a fare qualcosa di buono anche per il pianeta intero. Umanità compresa.”
Daniele Ferro
www.danieleferro.it
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